6 novembre 2013

INTERVISTA A GIANFRANCO MANFREDI




I fumetti sono sempre stati una mia grande passione. Ho dovuto battagliare contro i miei genitori - "Ma quando cresci? Basta con quei giornalini!" - e contro i pregiudizi di amici e donne, ma me ne sono sempre fregato.
Era l'estate del 1997 quando caddi nella rete di Magico Vento, fumetto che mischiava con sapienza i colori del western con l'horror, il giallo ed elementi storici. Ero così "fatto" che passai giorni a cercare di disegnare - malamente - le copertine di "Fort Ghost" e "Artigli", i primi due numeri. Poi lo rilessi, e rilessi ancora, e quelle vibrazioni continuarono sino alla fine della serie, senza soluzione di continuità.
Mi affezionai al suo creatore, Gianfranco Manfredi, di cui avevo già letto altro. Non pensavo fosse stato, tra le altre cose, un cantautore di ottima levatura e sfaccettato scrittore, quello l'ho scoperto col tempo, stimandolo ancora di più.
Si dice che non bisognerebbe mai conoscere uno dei propri idoli. Gianfranco Manfredi è una meravigliosa eccezione, una delle persone più interessanti e godibili che abbia mai incontrato.

                               LA MERAVIGLIOSA ECCEZIONE


Lei inizia come cantautore impegnato, mischiando affondi politici e sguardi al sociale e alla vita di tutti i giorni. Che ricordo ha di quegli anni e cosa la spinse alla musica?

La musica era il linguaggio principale della mia generazione. Aveva anche una funzione di socializzazione. Le prime canzoni che pubblicai - nell'album "La crisi" - nacquero tra amici, nel contesto delle occupazioni universitarie. Si riconosce benissimo, riascoltandole, l'impronta studentesca. Poi i temi si allargarono. Non che volessi parlare della "questione giovanile". E' solo che ero giovane, come tanti altri, e ci esprimevamo in musica per parlare, anche, di noi e di come vivevamo. Rispetto alla canzone cantautorale "impegnata" (che denunciava le ingiustizie sociali), la nostra era canzone "impregnata", nel senso che vi si riflettevano le nostre scelte o condizioni di vita quotidiana.

Mentre molti hanno cavalcato l'onda della sinistra, che in ambito musicale ha sempre portato benefici, lei invece ha spesso attaccato proprio lì, dai giovani della sua epoca alle magagne della classe politica. Pensa abbia nuociuto alla sua carriera? Come venivano viste le sue canzoni in quegli anni molto delicati per il nostro paese? Ha mai vissuto lei momenti delicati a causa della sua musica?

Sono sempre stato ironico, nel senso vero, che non è puramente quello di fare sorridere: è saper vedere le contraddizioni e i contrasti, le ridicolaggini non solo altrui, ma anche nostre. Mica le scrivevo per fare carriera, quelle cose. Nella mia testa non c'era l'idea di fare il cantante. Non c'era stata prima (anche se comporre e cantare mi piaceva), non c'è stata durante (mai avuto la passione della "vita spericolata" da rock star, anzi mi scassavo non poco a stare sempre in tournèe, e comunque vivevo esperienze molto più spericolate FUORI e a prescindere dalla tournèe) e non c'è stata dopo (quando ho capito, più maturamente, che mi sentivo più portato per la scrittura in sè, che per la canzone). A posteriori posso dire che le mie canzoni un ruolo negli anni '70 ce lo avranno pure avuto, altrimenti non verrebbero citate in tutti i libri che si occupano di quegli anni.
Momenti delicati? I soliti. Le invasioni di palco. Il lavorare più gratis che a pagamento. Le stupide censure mediatiche, nonostante all'epoca ce ne fossero molto meno di oggi. Il trovarmi spesso a essere considerato uno interessante e vivace, ma istintivamente provocatore, dunque da prendere con le pinze. Mica li ho vissuti solo io questi momenti. Il momento davvero delicato, per me, è stato quello in cui mi sono chiesto: ma io voglio essere una persona o un personaggio? Cioè voglio continuare a vivere come mi pare e come più mi corrisponde, o voglio inchiodarmi ad un'immagine pubblica sotto i riflettori? Buona la prima.
Un pò di notorietà serve nel mio lavoro (anche per il lavoro di scrittore), un eccesso di fama può mandarti in pappa il cervello e rovinarti l'esistenza. Meglio evitare, se si può. 

L'amicizia con il grande Ricky Gianco è ultratrentennale ormai. Come nacque il vostro rapporto? Cosa vi ha legato così profondamente?

Ricky lo conobbi grazie a Nanni Ricordi. Scattò subito un'istintiva simpatica tra di noi. E capimmo che insieme ci compensavamo. Lui è un cantante e un musicista vero, ha fatto questo per tutta la vita, è il suo talento e la sua professione. In quegli anni aveva perfettamente capito che moltissime cose stavano cambiando, sul piano sociale e dunque anche nella canzone. Io, dal canto mio, ero totalmente naif, avevo molto bisogno di raffinare le mie tecniche ingenue, di imparare a esprimermi meglio.
Avevo fatto il mio primo provino in Ricordi, anni addietro. Lucio Salvini lo ascoltò e mi disse: "Hai bisogno di conoscere dei musicisti". Ero rozzo. D'altro canto, non pensavo affatto che scrivere canzoni e cantarle per me sarebbe diventato anche un mestiere. Studiavo Filosofia, credevo che avrei fatto il ricercatore, da grande. Ma l'ambiente musicale, conoscendolo da vicino e dall'interno, mi parve molto più stimolante, anche culturalmente, di quello universitario. Probabilmente ci ero anche più portato, fatto sta che in Università, da ricercatore, mi sentivo tarpato. Ricky ha contribuito a salvarmi dalla noia di un pallosissimo lavoro ripetitivo di cui, in Università, era anche difficile vedere lo scopo, persino sul piano della ricerca. 

"Una città volgare che gode nel rumore" cantava nella splendida "Milano cosa fa?". Sono passati vent'anni. Come vede oggi Milano?

Mi sono di fatto trasferito in montagna da una dozzina d'anni. A Milano ci vado spesso, sto ad un'ora e mezza di treno. E' sempre una città interessante, ma è diventata triste, imballata, non è più un punto di riferimento sul piano nazionale e non riesce a esserlo su quello europeo. E' una grande metropoli mancata. Oggi, chi vuole provare il vero sapore della metropoli, può farlo solo all'estero. Moltissimi milanesi tornano riconfortati dai loro viaggi. Poi si ritrovano Milano e si sconfortano subito, come prima e più di prima. Milano è cosmopolita: molti quartieri sono a maggioranza straniera. Ma Milano, la Milano Istituzionale soprattutto, questo non vuole vederlo, è incapace di farne una ricchezza, questi nuovi cittadini non hanno rappresentanza alcuna. Milano coltiva un provincialismo davvero avvilente per chi ha conosciuto la Milano del passato che era una città aperta, addirittura spalancata, vera fucina di cambiamenti e sprovincializzazione. 

Agli inizi degli '80, collaborò anche con Jannacci e con Gaber. Che ricordo ha di loro?

Tutto avveniva in modo molto naturale. Ci si conosceva, perchè la possibilità e le occasioni c'erano, c'era una grande curiosità reciproca perchè in un periodo di vivaci trasformazioni, tutti sono curiosi degli altri e le gerarchie si scompongono. Che a me loro piacessero molto come artisti, era ovvio. Da ragazzo cantavo i loro pezzi. Che loro mi sarebbero piaciuti anche come persone, non era affatto scontato. Non lo era neppure che apprezzassero quello che scrivevo e che si facessero insieme delle chiacchierate a tutto campo, dove non si discuteva solo di musica, ma di scelte di vita e anche quando si dissentiva, ci si stava ad ascoltare, con il massimo rispetto per le esperienze e le sensibilità altrui. Una cosa mi univa a loro e a tanti altri: eravamo tanto espliciti, radicali e polemici in pubblico, quanto tolleranti, aperti e non moralistici nelle relazioni private. Le due cose si tenevano l'un l'altra.  

Quando è libero da impegni, cosa mette nello stereo?

Odio usare la musica come sottofondo, dunque preferisco scrivere in silenzio. Ma le ore in cui mi dedico all'ascolto della musica, sono sempre preziose. Non ho più un genere prediletto. Ascolto davvero di tutto, anche pescando a caso.

Ha scritto per la televisione e il cinema. Ha anche fatto l'attore. I ricordi migliori e i momenti peggiori di queste esperienze?

Sono esperienze di lavoro collettivo e da questo punto di vista insegnano molto. Anche sul piano tecnico sono vere scuole. Dal punto di vista artistico sono il più delle volte frustranti. Tutto costa e tutto viene commisurato al costo. Tutti vogliono dire la loro e il parere di chi investe o di chi si trova ad avere più potere nel progetto e sul progetto, conta più di quello di chi nel progetto mette la sua creatività. Alla fine si perde di vista che si sta lavorando, tutto sommato, a progetti creativi. Un creativo, anzi tutti i ruoli creativi: gli autori, il regista, l'attore, lo scenografo, il costumista, il direttore della fotografia ecc., fanno quello che possono nelle condizioni date, cioè vengono imbrigliati dentro una struttura estremamente complessa e insieme fragilissima la cui testa o centrale di comando - quando c'è - sta altrove, in imperscrutabili consigli di amministrazione, assemblee di azionisti, cordate funzionariali interne ed esterne. E' evidente che se per realizzare un'idea ci si impiegano più di cinque anni, un creativo vero non sta a perdere tutto 'sto tempo, lavora ad altre idee e in settori che ne consentano una realizzazione meno macchinosa e stressante. Il cinema, e ancor più la televisione generalista, si stanno (e non da oggi) svuotando dalle menti creative perchè sono diventati organismi kafkiani in cui è più facile perdersi che trovarsi.

Ha scritto tredici romanzi, togliendosi belle soddisfazioni anche con l'ultimo "La freccia verde". Domanda da profano: quando si mette a scrivere ha già tutto in mente sin dall'inizio o capita che la storia le prenda la mano e vada dove dice lei?

Studio molto, una volta che ho pescato un tema che mi appassiona. Ho in testa qualche linea guida. Poi però,  appena attacco a scrivere, lascio che sia la scrittura stessa a guidarmi. Non è esattamente un "lasciare che la storia vada per conto suo", anzi non è affatto così, è casomai lasciare spazio all'inconscio, a quello che prima non avevi calcolato di scrivere, ma che stai scrivendo in concreto. Non si tratta di abbandonarsi ad un flusso casuale, si tratta di essere nel mood. Jazz, se volete. 

Avendo il sottoscritto velleitarie velleità da scribacchino, cosa consiglia a chi sogna di scrivere ed è alle prime armi?

Consiglio anzitutto di leggere. Leggere molto e di tutto, anche ciò che magari ci sembra, in teoria, distante da noi. Bisogna imparare a selezionare sulla materia stessa, non a priori. L'uomo è ciò che mangia e se si mangia male, se non si conoscono e non si distinguono gli alimenti, non ci si sa nutrire e diventa impossibile fare il cuoco. Al massimo si può fare il cuoco da Fast Food. Quello però non è uno chef, è uno che piazza i soliti hamburger sulla piastra. Se poi, anche leggendo tanto, uno scopre che trova lo stesso difficoltà a scrivere, può evitare di scrivere e godersi l'esperienza della lettura, che è comunque una bellissima esperienza in sè.
L'idea che non sopporto è quella secondo cui scrivere sia facile. In un modo o nell'altro scriviamo tutti, si sa, però saper narrare è tutt'altra cosa. E' un lavoro altrettando difficile che saper dipingere, disegnare, suonare uno strumento e non per conto nostro, ma per un pubblico. Questo comporta molto esercizio, molto studio, molta dedizione e molta fatica. Personalmente, mi è stato molto utile tradurre. Ho tradotto dei romanzi (di generi diversissimi tra loro) per due o tre anni prima di mettermi a scrivere il mio primo romanzo. Tradurre significa seguire un testo parola per parola, cercare parole corrispondenti nella tua lingua, che però riescano anche a rendere lo stile e il ritmo della scrittura di un altro che si esprima in una lingua diversa. Si incontrano molti problemi, si deve scegliere tra soluzioni alternative, si impara a correggersi, si capisce in pratica cosa significhi portare avanti una narrazione dal principio alla fine, non semplicemente sedotti da un'idea iniziale. E' un'esperienza fondamentale.

Dalla musica a cinema e tv, per poi approdare al fumetto. Ora che raggiunge il pubblico attraverso dei sogni di carta, le manca quel rapporto diretto con la gente che aveva quando cantava?

Ah si. Quello mi manca moltissimo. Il palco ti lascia stremato, ma quello che provi dal vivo, nell'esecuzione diretta, non lo puoi provare certo stando tutti i giorni a scrivere a casa tua. Però a un certo punto, come ho detto prima, uno fa delle scelte, perchè tutto insieme non si può fare, nè si può avere. E se due ore al giorno di intensa emozione, le paghi con altre dieci da zombi, in cui ti tragittano tra un palco e l'altro, puoi anche scegliere di sacrificare quelle due per recuperare le altre dieci.

Il suo primo esperimento fumettistico è stato Gordon Link, che ho amato molto. In troppi, erroneamente, lo vedevano simile a Dylan Dog, ma si trattava di prodotti davvero differenti. Il suo era più dissacrante, più alla Ghostubusters, e sancì la nascita del fumetto trash. Come nacque? La sua chiusura fu un fulmine a ciel sereno per tanti appassionati...

Gordon Link e Dylan Dog (Copyright Sergio Bonelli Editore)
Figurati per me. Ricordo il giorno della chiusura. Stavo in una stanza, alla Dardo, a rilasciare un'intervista sulle prossime uscite di Gordon Link. Nella stanza adiacente si sapeva benissimo che la pubblicazione era stata bloccata. Non solo Gordon Link, l'intera attività della Dardo stava in panne. Nessuno mi aveva detto niente, lo seppi dopo l'intervista. Altro che fulmine a ciel sereno! Corto circuito. Black out. Improvvisamente al buio.
Com'era nato? Preparavo una serie di telefilm per Italia Uno. A pochi giorni dal primo ciak, la produzione venne annullata (quella e le altre previste per la stagione) per questioni di tipo finanziario che prescindevano largamente dai contenuti. Casarotti della Dardo mi propose di trasporre quella serie in fumetto. Accettai e così nacque Gordon Link. Lavorandoci, naturalmente, mi staccai dall'impostazione che avevo in mente per la TV e cercai di trovarne una più giusta per il fumetto. Dunque delle storie iniziali restarono soltanto alcuni spunti.

Da quell'esperienza arrivò a Dylan Dog, per cui scrisse delle buone storie ma che non ho mai visto adattissimo alle sue corde, forse per la psicologia del personaggio. Lo stesso dicasi per Nick Raider. Sbaglio?

DYD è stata un'esperienza per certi versi più surreale del fumetto stesso. Insomma: venivo da una serie interrotta (Gordon Link vendeva, al momento della chiusura, circa 25.000 copie) e Bonelli mi proponeva di scrivere non per una serie qualsiasi, ma per DYD che ne vendeva 700.000 al mese! Roba da far tremare i polsi per la responsabilità. Fui in grado di lavorarci anche perchè l'esperienza televisiva, in particolare, mi aveva fatto capire cosa volesse dire rivolgersi a platee sterminate. Ci ho lavorato con il massimo impegno e, credo, con buoni risultati. Ma da sceneggiatore professionista, cioè rispettando le caratteristiche originali del personaggio. Che mi corrispondesse o meno, erano cavoli miei, dovevo cercare di raccontarlo al meglio e al servizio dei lettori. A me, comunque, la serie piaceva e l'avevo seguita da appassionato di horror, fin dal primo numero. La conoscevo a menadito.
Copyright Sergio Bonelli Editore
Nick Raider invece (fu Decio Canzio a chiedermi di scrivere per quella testata) non l'avevo MAI letto, e quando mi misi a leggerlo, scoprii che mi corrispondeva molto meno. D'altro canto, il giallo poliziesco è un genere che mi è sempre venuto facile, perchè per me la costruzione di un plot non è mai stato un problema. Ci impiegavo, a scrivere un episodio, molto meno tempo che con DYD. Il personaggio però non mi convinceva affatto: nessuna sfumatura psicologica, sbirro legalitario, cornice improbabile (una New York davvero inesistente), epoca imprecisa, difficoltà ad affrontare temi e situazioni criminali davvero aspre ed attuali per ragioni, diciamo così, di politically correct, insidia suprema nel dover reggere il confronto con serie TV popolarissime e innovative come NYPD. Per me, quella era una Mission Impossible. Cercai lo stesso di far bene quel "lavoro", dandogli qualche tocco personale, senza snaturare le caratteristiche della serie. Credo che in Bonelli abbiano apprezzato una certa mia duttilità e capacità di passare da un genere all'altro. Ne ho ricavato un affidamento personale e professionale che mi ha consentito di battezzare Magico Vento.

Ecco, proprio Magico Vento: a mio modesto avviso, è stato uno dei migliori fumetti italiani di sempre. Quali crede siano stati i segreti delle sue fortune? Cosa ci ha messo di lei in Ned, o in Poe?

Ho potuto metterci il mio modo di vedere le cose e il mio modo di raccontare. Non dovevo più rispettare niente, solo cercare di essere coerente a quello che volevo narrare io. Nè Ned, nè Poe sono dei cloni di me stesso. Io cerco di non mettermi mai al centro della narrazione. Il centro deve essere occupato dai personaggi. E i personaggi devono avere una loro autonomia. E devi poterli guardare anche in modo distaccato. Tu puoi fare il narratore e il regista, ma se ti metti anche a fare l'attore - cioè stai sia dietro che davanti alla macchina da presa - o sei Charlie Chaplin oppure è saggio evitare. Anche perchè di Chaplin ne nasce uno ogni secolo.
Copyright Sergio Bonelli Editore

In un'intervista ha detto "Tex sul piano della scrittura è faticosissimo": ce la spiega meglio? E' curiosa, una frase del genere, legata ad un personaggio che fa dell'essere rassicurante da decenni una delle sue armi migliori...

E' faticoso perchè Tex è come un albero secolare. Il bello di quell'albero sta nel fatto che sia antico e monumentale, come una sequoia o una quercia. Puoi curarlo, se ha qualche guasto d'età, puoi disboscare il sottobosco, perchè l'albero riacquisti centralità e spicco, puoi potare qualche ramo secco, ma non puoi farlo crescere come se fosse un albero appena nato, tantomeno addobbarlo con le luci di Natale perchè sembri più fico. E' più fico senza. Gli alberi non sono pali della luce. Per salvaguardarli devi togliere, non aggiungere.

Le trame serrate e con una fine dichiarata - tipica delle miniserie - hanno tirato fuori il Manfredi più romanziere secondo me. Il potersi sbizzarrire senza i vincoli di una serie potenzialmente infinita ha fatto si che tirasse fuori il meglio, e secondo me questa è stata una delle chiavi vincenti di Volto Nascosto. Trova che il futuro sia nelle miniserie o continua a prediligere un inizio senza fine dichiarata?

Mi piace tutto. Serie, miniserie, numeri autoconclusivi, graphic novel. Ci sono format e formule giusti per un certo tipo di racconto e sbagliati per un altro tipo di racconto. Spero si continui a raccontare di tutto e in tutti i modi possibili. I trend creano solo un grande intasamento: tutti incolonnati sullo stesso sentiero come per le partenze intelligenti in autostrada. Mentre la cosa più intelligente sarebbe quella di usare le strade e cercare le destinazioni ignorate e ancora non abbastanza esplorate dagli altri.

Il suo ricordo di Sergio Bonelli...

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Mi manca. Come persona, anche più che come editore. Gli editori si possono cambiare o sostituire, le persone, certe persone, no.

Il media fumetto non se la passa benissimo. Che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? E che cosa pensa di "Orfani", il nuovo prodotto Bonelli a colori che si spera riporti aria nuova al settore?

Non sono d'accordo (sulla prima parte). Il fumetto, nel mondo, sta vivendo un momento bellissimo. Per le nuove generazioni, e non solo per loro, il fumetto ha preso il posto che per la mia generazione era occupato dalla musica. E' il linguaggio più universale, al momento. Di questo non ci rendiamo pienamente conto. E questo linguaggio è anche crocevia e sintesi di altri linguaggi. Orfani si sintonizza con un linguaggio cinematografico piuttosto tipico delle mega-produzioni del mainstream americano. Poi Recchioni, come autore, gli conferisce un'interpretazione e uno stile personali. Ma il linguaggio è riconoscibile. Usare un linguaggio riconoscibile consente di essere letti, di più: favorisce la lettura. Detto questo, anche il settore del fumetto umoristico si sta molto rinnovando sul piano del linguaggio e mi è sempre spiaciuto che in Bonelli questo lato non lo si sia esplorato a sufficienza. Questo è il filone narrativo rispetto al quale il fumetto Bonelliano è rimasto più arretrato.

Ha collezionato successi in ogni ambito in cui ha messo voce e penna, spaziando, come abbiamo detto, dalla canzone al romanzo, dalla tv al cinema e al fumetto. Ha ancora qualche sogno nel cassetto?

Il mio cassetto è sempre vuoto, perchè quando penso una cosa, la scrivo e la pubblico, altrimenti o la dimentico in fretta oppure resta a maturare in testa finchè non diventa davvero urgente. Sogni velleitari, zero. Cerco sempre di fare quello che so fare e che posso realisticamente realizzare. Col "vorrei, ma non posso" non si va da nessuna parte. E non è affatto vero - anche se ringrazio del complimento - che ho sempre avuto "successo". Anzitutto perchè il successo vero si misura, oggi più che mai, su scala globale e su numeri altissimi. Pure nei videoclip oggi il successo comincia dal milione di clic in su. Sotto questa quota, non si tratta di successo, ma di semplice risultato del proprio lavoro quotidiano, un risultato che ti consente di vivere abbastanza bene se hai lavorato bene, se no, t'attacchi. E poi perchè gli errori e gli insuccessi - ne ho fatti e subiti parecchi - non solo sono inevitabili (soprattutto quando si lavora e si produce tanto), ma necessari. Gli insuccessi insegnano, i successi (spesso) illudono.

2 commenti:

Alessandro Diele ha detto...

Intervista molto molto interessante!

Manfredi mi dà l'impressione di essere uno che gli puoi anche chiedere le lettere dell'alfabeto in ordine e lui riuscirebbe comunque a risponderti piazzando un aneddoto gustoso o una lezione di vita.

(senza nulla togliere all'intervistatore, che in questo caso specifico ha pure fatto delle belle domande)

Antonello Vanzelli ha detto...

Ciao Alessandro. Guarda, non mi togli nulla perchè sono assolutamente d'accordo con te. Non sono le domande a fare una bella intervista ma l'intervistato, ed è difficile trovare menti brillanti e aperte come Manfredi.